La deindustrializzazione Meridionale.
In quest’ultimo periodo, ho avuto modo di leggere articoli e commenti di presunti “giornalisti” e di persone che, navigando nella più profonda ignoranza, additano ai meridionali e ad una certa loro “propensione all’ illegalità” la sciagurata situazione economica in cui versa il Meridione da più di 150 anni (a loro dire).
Fortunatamente, grazie a storici, economisti, saggisti e sopratutto grazie ad internet, è possibile per tutti conoscere le vere cause della cosiddetta “Questione Meridionale” nata da quello sciagurato 1861; com’è possibile, inoltre, venire a conoscenza di una realtà economica Meridionale-preunitaria tutt’altro che disagiata ma, invece, florida e all’avanguardia.
Per ricercare le motivazioni che hanno portato alla nascita dell’ interminabile “Questione Meridionale” credo possa bastare stilare un raffronto tra le prospettive di sviluppo delle due aree della nostra Penisola, Settentrionale e Meridionale, prima e dopo quello che molti si ostinano a chiamare “Risorgimento Italiano”.
Bisogna in primis ricordare che, dal punto di vista economico, il Regno delle Due Sicilie era il detentore di più dei due terzi della ricchezza circolante in tutta la penisola.
Dal saggio “Scienze delle Finanze” edito da Pierro e scritto da Francesco Saverio Nitti (noto economista, politico , giornalista e antifascista italiano; Presidente del Consiglio dei ministri del Regno d’ Italia e più volte ministro.) è possibile apprendere informazioni circa le ricchezze economiche degli stati pre-unitari, indici di povertà diffusa in relazione alla popolazione residente ed indice di occupazione nei vari settori (agricolo, industriale, commerciale).
La riserva aurea, a garanzia della moneta circolante, al momento dell’Unità nel Regno delle Due Sicilie era di ben 443,2 in milioni di lire dell’epoca, nel Regno di Sardegna di soli 27 milioni; in Lombardia di 8,1 milioni; in Toscana di 85,2 milioni; a Parma e Piacenza di 1,2 milioni; a Roma di 35,3 milioni; in Romagna, Marche ed Umbria di 55,3 milioni; in Veneto di 12,7 milioni, a Modena di 0,4 milioni. Su un totale di 668,4 milioni di lire a copertura della moneta emessa su tutto il territorio nazionale pre-unitario, più dei due terzi era a garanzia della moneta borbonica, del meridione.
La domanda sorge spontanea, dov’è finita tutta questa ricchezza all’indomani dell’Unità d’Italia?
Dando uno sguardo all’ambito produttivo-industriale, prima e dopo l’Unità d’Italia, è possibile trovare nel Meridione una realtà industriale e commerciale all’avanguardia, che cozza totalmente con la versione “Piemontese” della storiografia ufficiale (che potremmo definire storia del Piemonte piuttosto che storia d’Italia). Una realtà industriale Meridionale totalmente saccheggiata, distrutta e abbandonata negli anni successivi all’unificazione allo scopo di favorire lo sviluppo e l’egemonia dell’industria Settentrionale.
Il Regno delle Due Sicilie aveva diverse eccellenze industriali, viene naturale nominare alcune tra le più famose per numero di citazioni : Real Opificio di Pietrarsa; Cantiere navale di Castellammare di Stabia; Polo siderurgico di Mongiana; Seterie di San Leucio. Cosa è mai potuto accadere a queste eccellenze?
La sorte che spettò all’industria e all’economia Duosiciliana è riassumibile nelle parole di Carlo Bombrini:
«I Meridionali non dovranno mai essere più in grado di intraprendere»
Carlo Bombrini, che fu Governatore della neonata Banca Nazionale del Regno d’Italia dal 1861 al 1882, fu anche il fondatore dell’Ansaldo; una società industriale sorta a Genova nel 1853 per interessamento del Conte Cavour, fermamente intenzionato a dar vita ad una industria piemontese per la produzione di locomotive a vapore e materiale ferroviario, in modo da ridurre le costose importazioni dei macchinari dall’ Inghilterra e dal Regno delle Due Sicilie.
Bombrini fu tra i promotori dello smantellamento delle grandi industrie del meridione d’Italia, prima fra tutte quella, appunto, di Pietrarsa,che rappresentavano una forte concorrenza per le realtà settentrionali. Suo fu anche il piano economico-finanziario che avrebbe poi alienato tutti i beni del Regno delle Due Sicilie. Il suo piano avrà poi gli effetti sperati e la sua Ansaldo beneficerà della neutralizzazione della più prestigiosa Pietrarsa, la quale non ebbe più commesse, essendo state esse dirottate a Genova.
Dai dati circa l’Indice di industrializzazione delle principali provincie italiane dal 1871 al 1911 ottenuti da “Banca d’Italia Eurosistema – n. 4 – Attraverso la lente d’ingrandimento: aspetti provinciali della crescita industriale nell’Italia postunitaria“ di Carlo Ciccarelli e Stefano Fenoaltea (Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”)
Indice di industrializzazione delle principali province italiane 1871-1911 |
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Provincia | 1871 | 1881 | 1901 | 1911 |
Torino | 1.41 | 1.54 | 1.70 | 1.69 |
Milano | 1.69 | 1.78 | 2.23 | 2.26 |
Venezia | 1.37 | 1.33 | 1.22 | 1.08 |
Firenze | 1.22 | 1.27 | 1.21 | 1.15 |
Roma | 0.96 | 0.99 | 0.85 | 0.85 |
Napoli | 1.44 | 1.59 | 1.42 | 1.32 |
Palermo | 1.21 | 0.99 | 0.80 | 0.65 |
è possibile notare come nel 1871, nonostante fossero già trascorsi dieci anni di smantellamento dell’apparato industriale dell’ex Regno delle Due Sicilie, l’indice di industrializzazione della Campania era ancora dello 1,01%, con Napoli, nel dato provinciale, ancora all’ 1.44% e quindi più di Torino che era all’1.41%.
L’indice di industrializzazione della Sicilia era allo 0.98%, quindi agli stessi livelli del Veneto che era al 0.99%, la Puglia era allo 0.78% con la provincia di Foggia allo 0.82%: molto più di province lombarde come Sondrio, allo 0.56%, e vicinissima ai livelli di industrializzazione dell’Emilia allo 0.85%. La Calabria era allo 0.69%, con la provincia di Catanzaro allo 0.78% e perciò allo stesso livello di Reggio Emilia e più di Piacenza, che era allo 0.76%, ma anche di Ferrara allo 0.74%.
Appare drammatico notare come quarant’anni dopo, nel 1911, l’indice di industrializzazione del Piemonte fosse salito all’1.30%, con Torino all’1.69%, mentre quello della Campania era sceso a 0.93%, con Napoli all’1.32%. La Lombardia era arrivata all’1.67%, la Liguria all’1.62%, mentre la Sicilia era crollata allo 0.65%, la Puglia allo 0.62%, la Calabria allo 0.58%, la Basilicata allo 0.51%.
Dall’analisi dei dati circa la Produzione Industriale Aggregata ottenuti da “I due fallimenti della storia economica:il periodo post-unitario” di Stefano Fenoaltea- Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, è possibile fare una serie di osservazioni.
Campania e Sicilia erano al 3° posto nel 1871 (dopo dieci anni di smantellamento dell’apparato industriale DuoSiciliano) per valore aggiunto su 16 Regioni. Il Sud/Regno delle Due Sicilie nel 1871 aveva più o meno lo stesso peso, sul totale Italia, del Nord-Ovest, ovvero il 32,4% contro il 34,4%. Dopo 40 anni, nel 1911, il Nord-Ovest aveva aumentato il suo peso sul totale Italia del 7,8% a scapito, principalmente, delle Due Sicilie (- 6,5%).
Dall’Analisi dei dati relativi alla Divergenza del PIL pro capite tra Nord e Sud ottenuti da “Il prodotto delle regioni e il divario Nord-Sud in Italia (1861-2004)“ di Vittorio Daniele (Università “Magna Græcia”, Catanzaro) & Paolo Malanima (Istituto ISSM-CNR, Napoli), è possibile inoltre prendere atto di come il PIL pro capite, prima equivalente tra Nord e Sud, dal 1891 inizia a divergere nettamente a favore del Nord grazie ai risultati ottenuti dalle politiche settentriocentriche portate avanti dal governo Sabaudo.
Dati che, dopo anni dalle ricerche effettuate da noti economisti e meridionalisti, sono stati ri-confermati ulteriormente anche dallo SVIMEZ (l’ Associazione per lo Sviluppo dell’Industria nel Mezzogiorno) che, con un rapporto, ha illustrato come “Un secolo e mezzo fa il Pil del Mezzogiorno era quasi uguale a quello del Nord: adesso è la metà.”
(http://espresso.repubblica.it/dettaglio/sud-fotografia-di-un-declino/2152582/10)
Dai dati economici sopra esposti è possibile quindi affermare che il Regno delle Due Sicilie non era affatto così arretrato nel 1860 se, nonostante fossero trascorsi 10 anni di politiche settentriocentriche e di consecutiva distruzione dell’apparato industriale meridionale, nel 1871 il suo peso sul totale Italiano era quasi pari a quello del Nord-Ovest e due sue Regioni erano ai primi posti.
L’Unità d’Italia aveva letteralmente spostato, dopo soli 40 anni, il baricentro della produzione industriale totalmente al Nord-Ovest.
L’ulteriore colpo di grazia apportato all’economia meridionale fu la ingente tassazione del nuovo governo piemontese.
Il governo unitario “estese il sistema fiscale piemontese a tutti i vecchi Stati che erano entrati a far parte del nuovo regno. Avvenne così, per effetto del nuovo ordinamento che il regno delle Due Sicilie si trovo’, ad un tratto a passare dalla categoria dei paesi a imposte lievi in quella dei paesi a imposte gravissime”.(F.S.Nitti, Il Bilancio dello Stato dal 1862 al 1897, Napoli, 1900, pagg. 52-53)
Per avere un idea delle nuove tasse che gravarono sul Meridione dopo la conquista piemontese basta dare un’occhiata ai dati finanziari raccolti in “Le finanze Napoletane e le finanze Piemontesi dal 1848 al 1860“ del Barone G. Savarese, Napoli – Tipografia di Gaetano Cardamone 1862; nei quali vengono elencate le nuove tasse nel Regno delle Due Sicilie ed in Piemonte da 1848 al 1859.
Riguardo gli investimenti pubblici post-unitari, in un libro pubblicato nel 1900, Francesco Saverio Nitti fornisce una valutazione complessiva della distribuzione delle entrate e delle spese nelle diverse zone del Paese a partire dall’Unità. Nitti argomenta che il Mezzogiorno ha sopportato gli oneri maggiori durante i primi decenni del Regno d’Italia e, per quanto riguarda le spese per i lavori pubblici, afferma che “il più grande numero di spese è avvenuto nell’Italia settentrionale e nella centrale” (Francesco Saverio Nitti (1900) – Nord e sud. Prime linee di una inchiesta sulla ripartizione territoriale delle entrate e delle spese dello Stato in Italia – Torino, Roux e Viarengo).
Da molti scritti si evince l’enorme disparità di finanziamenti tra il nord e il sud tanto che “Lo Stato spendeva mediamente 50 lire per ogni cittadino del Nord e 15 per quello del Sud” (Lorenzo Del Boca, Maledetti Savoia, Piemme, 2001).
L’unica spesa di un certo rilievo, per il meridione, fu l’acquedotto pugliese (realizzato dopo il 1902), infatti la media procapite per queste spese fu di Lire 0,39 per abitante nel Mezzogiorno continentale (Lire 0,37 in Sicilia) contro la media nazionale di Lire 19,71.
I prestiti di favore per costruire gli edifici scolastici raggiungono per il Sud la punta massima in Puglia di Lire 5.777 per ogni 100.000 abitanti (Campania Lire 641, Calabria Lire 80); nel Nord le punte sono Lire 13.345 in Piemonte e Lire 15.625 in Lombardia. Al Nord le scuole tecniche sono distribuite in ragione di una ogni 141 mila abitanti, al Centro una ogni 161 mila abitanti, al Sud una ogni 400 mila abitanti; analoga la situazione delle Università per cui nel Mezzogiorno continentale rimase solo quella di Napoli e ci si oppose al progetto di creazione di una sede a Bari. (Francesco Saverio Nitti – “Il bilancio dello stato dal 1862 al 1896-97” – Napoli 1900).
Le spese per spiagge, fari e fanali ammontano per il Nord a Lire 278 mila per ogni km. di costa, a Lire 83 mila al Centro, a Lire 43 mila per il Sud ed a Lire 31 mila in Sicilia; nella stessa epoca il Parlamento respinge i progetti di leggi speciali per i porti del Sud ed approva quelli per il Centro-Nord.
Un gran parlare si è fatto sulle spese ferroviarie che lo Stato unitario ha fatto al Sud: 863 milioni per la parte continentale, 479 milioni per la Sicilia, il tutto, però, va commisurato al totale di 4.076 milioni spesi nello stesso periodo per l’Italia intera. Il Sud ebbe meno di un terzo dello stanziamento complessivo, un’atto di “generosità” necessario per collegarsi ai mercati meridionali utili soprattutto all’economia settentrionale. (Carano Convito – “L’economia italiana prima e dopo il Risorgimento” – Firenze, 1928).
Molti potrebbero obiettare che sono cose passate, cose da “nostalgici”, nessuno però tiene conto che anche dopo la seconda guerra mondiale, nonostante il Meridione partisse già in una condizione svantaggiata, gli investimenti vennero profusi in quantità maggiori al Nord.
Con il Piano Marshall le 7 regioni meridionali che avevano avuto danni di guerra molto più ingenti che nel Nord, ebbero il 10% dei finanziamenti, mentre il Nord fece la parte del leone: si prese tutto il restante 90%. La Lombardia ebbe US $ 1.366.507 e la Calabria la misera cifra di US $ 14.685
Nell’immediato Secondo Dopoguerra, il presidente di Confindustria, Costa, si oppose alle richieste del sindacalista Di Vittorio che chiedeva di investire parte dei soldi Marshall per un minimo sviluppo industriale nel Sud: «È assurdo, è più conveniente trasferire manodopera verso Nord», gli rispondeva l’illustre Presidente, ed incrementava gli investimenti nel triangolo industriale Genova Torino Milano.
«Così Torino prima si prese il Meridione e poi i meridionali» . «L’accanita resistenza degl’industriali settentrionali all’industrializzazione del Mezzogiorno» segnala Manlio Rossi Doria in Scritti sul Mezzogiorno, è «durata sino al 1962» (e dopo la stagione delle Partecipazioni statali, riprese peggio di prima). Il terrore di un Meridione che potesse produrre in concorrenza ha indotto il Nord a ostacolare quasi ogni iniziativa che potesse dotare quella parte del paese di infrastrutture adatte a sostenere uno sviluppo duraturo: meglio sussidi che strade, aeroporti. (“Terroni” di Pino Aprile)
E’ d’obbligo analizzare anche la (Finta) Cassa del Mezzogiorno, per i cui investimenti ancora oggi veniamo definiti dei “mantenuti” figli dell’assistenzialismo.
Nei suoi 40 anni di attività l’investimento complessivo della Cassa del Mezzogiorno è stato calcolato in 279.763 miliardi di lire (circa 140 miliardi di euro), con una spesa media annuale di 3,2 miliardi di euro. Cifre che sono in effetti circa lo 0,5% del PIL.
Solitamente lo 0,5% del PIL corrisponde alla somma annua versata da tutti i paesi Europei per gli aiuti ai Paesi del Terzo Mondo. Lo 0,5% del PIL è sicuramente inferiore al costo del ripianamento del deficit delle Ferrovie dello Stato. Nello stesso periodo invece gli investimenti pubblici al nord assorbivano il 35% del prodotto interno lordo.
Disse il Senatore a vita Emilio Colombo:
“La Cassa operò per modernizzare il Sud e creò le condizioni per un grande mercato di cui profittò la struttura industriale del Nord pesando sulla ineguale «ragione di scambio» tra industria e agricoltura e quindi tra Nord e Sud e per classi e generazioni”.
La legge del 1950, infatti, prevedeva che gli enti locali potessero evitare la gara dando gli appalti attraverso trattative dirette in concessione, ciò causò, come ricorda Gerardo Marotta, fondatore dell’Istituto per gli Studi filosofici, che “si precipitarono nel Sud le industrie del Nord, che fecero man bassa per la costruzione delle dighe. Venivano a costare anche 100 volte più del dovuto”.
Nacquero così negli anni ’60 le cosiddette «cattedrali nel deserto», non utili al Mezzogiorno, ma progettate in funzione dello sviluppo del Nord.
– Legge 183/76 e Legge 64/86: 34,805 progetti per 51000.000.000.000 miliardi di lire stanziati totali.
Investimento medio delle imprese con sede legale al NORD: 4.680.000.000.
Investimento medio delle imprese con sede legale al SUD: 1.140.000.000
–Legge 12 agosto 1977, n°675. Aziende che hanno ottenuto il finanziamento:
NORD: 63,4%
CENTRO: 6,4%
SUD: 7,9%
Stabilimenti interessati dai finanziamenti:
NORD: 38,6%
CENTRO: 15,8%
SUD: 18,8%
–Legge 17 febbraio 1982, n°46
Progetti finanziati dal fondo rotativo:
NORD: 95%
SUD: 5%
–Art 9 legge n46/82
Finanziamento per ‘sviluppo tecnologie innovative’: 1.621.000.000.000 lire investiti totali di cui al SUD solo 370.000.000.000
–Ultimo periodo della Cassa del Mezzogiorno: il Fondo Monetario Internazionale scrive che (dal 1984 al 1994): Le imprese che hanno beneficiato dei finanziamenti sono per l’80% grandi imprese, quindi del nord.
NORD:88,33%
SUD:9,4%
(Fonte: «Il paradiso. Viaggio nel profondo Nord» – di Gennaro Sangiuliano, Ciro Paglia)
(Articoli correlati: http://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/GdM_dallapuglia_NOTIZIA_01.php?IDNotizia=357099&IDCategoria=11)
Facendo riferimento a periodi più recenti, non si può evitare di menzionare tutta una serie di ingenti fondi e finanziamenti destinanti al Meridione ma che , invece, sono finiti da tutt’altra parte; dei veri e propri furti.
I Fondi Aree Sottoutilizzate (FAS), circa 50 miliardi di € di fondi destinati al meridione utilizzati per l’infrastrutturazione del nord, per i trasporti sul lago di Garda, per coprire il buco derivante dall’abolizione dell’ICI, per le multe delle quote latte, ecc. (http://espresso.repubblica.it/dettaglio/scippo-al-sud/2126696)
I Fondi 488, “I fondi per l’industria dal Sud vanno al Nord. Un decreto governativo sposta gli incentivi 488 per finanziare imprese settentrionali e armamenti”.(http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/notizie/economia/2010/27-ottobre-2010/i-fondi-l-industria-sud-vanno-nord–1804037701811.shtml)
I Fondi CIPE per le infrastrutture, invece di essere diretti nella parte della penisola con maggior carenza infrastrutturale, dove vengono concentrati?
“Il Cipe sblocca i fondi: cantieri per 21 mld, al Sud solo l’1%, 11 miliardi al Nord, 107 milioni al Sud“. (http://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/GdM_dallapuglia_NOTIZIA_01.php?IDCategoria=273&IDNotizia=335004)
I Fondi per fare la Salerno-Avellino? Utilizzati per la Trieste-Lubiana.
“«Spostati» al Nord i 190 milioni per i lavori sul raccordo autostradale dopo la firma dell’Intesa con la Slovenia” (http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/salerno/notizie/cronaca/2011/31-gennaio-2011/i-soldi-fare-salerno-avellino-li-hanno-usati-la-trieste-lubiana-181364994674.shtml).
A tal proposito sono recenti anche le ricerche di De Bonis (Banca D’Italia), Rotondi (Unicredit), Savona (economista, professore universitario) relative alla migrazione interna dei fondi, ricerca nella quale si dimostra come il Nord viva della colonizzazione del Sud.
Non c’è nulla di cui stupirsi, daltronde quella che ostacola lo sviluppo industriale e commerciale del Meridione è una politica che ormai va avanti da 150 anni ad oggi, come confermato da molti politici, economisti e figure emblematiche della storia di questa Nazione.
Antonio Gramsci: “L’unità d’Italia non è avvenuta su basi di uguaglianza, ma come egemonia del Nord sul Mezzogiorno, nel rapporto territoriale città-campagna. Cioè, il Nord concretamente era una “piovra” che si è arricchita a spese del SUD e il suo incremento economico-industriale è stato in rapporto diretto con l’impoverimento dell’economia e dell’agricoltura meridionale. L’Italia settentrionale ha soggiogato l’Italia meridionale e le isole, riducendole a colonie di sfruttamento”.
- Luigi Einaudi: “Sì, è vero, noi settentrionali abbiamo contribuito qualcosa di meno ed abbiamo profittato qualcosa di più delle spese fatte dallo Stato italiano, peccammo di egoismo quando il settentrione riuscì a cingere di una forte barriera doganale il territorio ed ad assicurare così alle proprie industrie il monopolio del mercato meridionale“.
Giustino Fortunato: “L’unità d’Italia è stata purtroppo la nostra rovina economica. Noi eravamo, nel 1860, in floridissime condizioni per un risveglio economico sano e profittevole. L’unità ci ha perduti. E come se questo non bastasse, è provato, contrariamente all’opinione di tutti, che lo Stato italiano profonde i suoi benefici finanziamenti nelle province settentrionali in misura ben maggiore che nelle meridionali”
F.sco Saverio Nitti: “Già nei primi quarantacinque anni di vita unitaria il Mezzogiorno aveva funzionato come colonia di consumo e aveva permesso lo sviluppo della grande industria del Nord”.